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La Tranvìa Val d'Orba e la sua stazione di Ovada

di Federico Borsari - 12 Marzo 2023


E' di questi giorni la notizia che il fabbricato di Piazza Castello (di proprietà comunale) della ex-stazione della tranvìa Ovada-Novi, dopo un fallito tentativo di vendita, è stato depennato dall'elenco dei beni comunali alienabili e, grazie ai fondi messi a disposizione dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), verrà restaurato, risistemato ed affidato in gestione al Consorzio Servizi Sociali di Ovada per la realizzazione di uno spazio di sostegno per le persone con difficoltà abitative e per l'ubicazione di altri servizi di utilità sociale.

 La stazione oggi
(Foto: F.Borsari)


Tutti gli Ovadesi conoscono bene questa struttura, che viene comunemente denominata "la stazione del trenino", per la sua attuale situazione di degrado strutturale che si è fortemente aggravata negli ultimi decenni; alcuni tra i più "anziani" probabilmente se la ricordano ancora operativa e, sicuramente, la notizia del suo recupero strutturale e sociale non può che essere molto ben accolta da quegli Ovadesi (ormai pochi, purtroppo) che "ci tengono" alla conservazione del patrimonio storico della città. Per molti altri, "mugugnoni" a prescindere, questa notizia ha già dato la stura, soprattutto nell'àmbito dei socialmedia, a critiche e considerazioni qualunquistico-populiste che paventano catastrofici scenari di degrado urbano della zona.
Staremo a vedere ma, a prescidere dalle opinioni (che, essendo tali, sono "opinabili"), personalmente riteniamo che si tratti di una buona notizia poichè (a dispetto di quelli che vorrebbero demolire tutto in nome di un progresso cieco ed ottuso) ogni azione di recupero e conservazione del passato serve per avere riferimenti e testimonianze utili per un futuro migliore.
A questo proposito, per dare agli Ovadesi qualche notizia in più che possa far pienamente apprezzare tale interessante progetto, vogliamo qui fare un po' di storia di quella che fu la "Tranvìa Ovada-Novi" e, con essa, anche della sua stazione ovadese.
Ma, prima di tutto, cos'è una "Tranvìa"?

TramWay

La parola "Tramway" è composta dai due termini "Tram" (che deriva dall'omonimo vocabolo scozzese e che significa "assi di legno") e "Way", che in Inglese significa "strada". In origine definiva un percorso (o un itinerario) che si svolgeva sopra una serie di assi di legno; nella sua accezione tecnica attuale, questa parola va a definire un veicolo (che può essere azionato da differenti forme di energia) che segue un percorso "obbligato" da guide fissate sul terreno (nella fattispecie i "binari"). Alcuni vedono anche nella parola Tramway un richiamo al cognome dell'ingegnere britannico Benjamin Outram, che realizzò, nel 1795, la prima linea tranviaria del Mondo, tra Little Eaton e Crich, in Inghilterra, nel Derbyshire.
La caratteristica che differenzia il tramway dalla ferrovia è che il primo opera prevalentemente nell'ambito cittadino (collegando le varie zone della città) o della breve distanza (collegando borghi, frazioni o località suburbane) mentre la ferrovia propriamente detta opera sulle grandi distanze e collega essenzialmente tra di loro le grandi città.

A partire dai primi decenni dell'Ottocento la "tranvìa" (termine ufficialmente approvato dall'Accademia Italiana della Crusca nel 1896) vide un grande sviluppo soprattutto nelle aree cittadine a fianco dell "Omnibus" (dall'omonima parola latina che significa "per tutti" e che era il progenitore degli odierni "Autobus") che aveva la differenza di non dover percorrere percorsi obbligati dalle rotaie; questa differenza caratterizza tuttora i due tipi di veicoli, il Tram e l'Autobus.
Fino alla fine dell'Ottocento i tranvài, come gli omnibus, erano a trazione animale, cioè trainati da cavalli. Fu solo verso il 1870 che fecero le loro prime apparizioni i tranvài a vapore, cioè trainati da piccole locomotive a vapore.

I Tranvài a vapore

L'invenzione della locomotiva a vapore è comunemente attribuita a George e Robert Stephenson ma essi furono, in realtà, coloro che applicarono per la prima volta, nel 1829, in maniera veramente efficiente, le tecnologie di produzione del vapore ad uso autotrazione già inventate nei decenni precedenti.
Il funzionamento di una locomotiva a vapore può essere paragonato oggi, essenzialmente, a quello di una pentola a pressione e di un bollitore.
In pratica, c'è un "focolaio" (dove viene bruciata legna, o carbone) che produce, ovviamente, dei fumi caldi. Questi fumi, prima di essere convogliati all'esterno tramite il "fumaiolo" (camino) vengono fatti passare dentro ad appositi tubi (i cosidetti "tubi di fumo") che sono a loro volta sistemati all'interno di un contenitore (la "caldaia"), solitamente cilindrico per resistere meglio alla pressione, pieno d'acqua. Il calore dei fumi contenuti nei tubi scalda l'acqua della caldaia fino a traformarla in vapore ad alta pressione. Questo vapore viene convogliato, attraverso apposite tubazioni, verso specifici meccanismi ("cilindro di distribuzione del vapore" e "cilindro motore") dove il vapore attiva un movimento "a stantuffo" (cioè lineare, avanti-indietro) che viene trasformato in movimento rotatorio tramite una biella; il movimento rotatorio delle ruote viene quindi ri-trasformato in movimento orizzontale per azionare il sistema di distribuzione del vapore.
In questo video viene spiegato molto chiaramente il funzionamento di una locomotiva a vapore:


(Credit: Youtube)


I primi Tranvài a vapore in Italia

Le prime linee tranviarie a vapore furono realizzate in Lombardia, specificatamente a Milano, a partire dal 1878 ed alla fine dell'Ottocento i collegamenti tranviari a vapore tra la città ed il suo hinterland potevano già contare oltre dieci linee. La caratteristica di questi convogli tranviari era l'omogeneità del materiale rotabile, che era uguale per ogni convoglio e che poteva essere impiegato, a seconda delle esigenze, su qualsiasi tratta, poiché tutte queste linee erano interconnesse tra di loro nel centro di smistamento del capoluogo meneghino.
Tra le caratteristiche dei tranvài a vapore c'era la ridotta autonomia, poiché -a differenza dei normali convogli ferroviari a vapore- le piccole locomotive dei tranvài NON avevano il "tender", cioè il carro per il rifornimento dell'acqua e del carbone. Di conseguenza, la loro autonomia era ridotta ad UNA sola corsa di andata o ritorno tra due capolinea, dove dovevano essere rifornite di combustibile e di acqua prima di poter riprendere il servizio. L'autonomia massima di una locomotiva di tranvài era di circa 30 chilometri se effettuati a ridotta velocità; aumentando la velocità diminuiva in proporzione l'autonomia ed è per questo motivo che, a quell'epoca, la velocità massima di un tranvài a vapore non superava i 15 (si, avete letto bene: quindici) chilometri orari.
Un convoglio di tranvài a vapore era allora composto, oltre che dalla locomotiva, da due o tre carrozze passeggeri e da una carrozza di servizio (trasporto posta, pacchi, bagagli, ecc.) e tutte le carrozze erano progettate con speciali (ma assai approssimativi) accorgimenti per la sicurezza ed il "comfort" dei passeggeri.
La locomotiva, ad esempio, era "carenata" con delle apposite protezioni (tetto, paratie laterali e frontali) che potessero evitare ai passeggeri in salita e discesa di essere colpiti dai getti di vapore bollente mentre le carrozze passeggeri, quasi sempre del tipo "en plein air", cioè praticamente aperte, erano tutte coperte per evitare la pioggia. Tutto questo non impediva comunque ai passeggeri di venire investiti dal fumo e dai lapilli incandescenti che fuoriuscivano dal fumaiolo della locomotiva e che spesso danneggiavano con bruciature gli abiti dei passeggeri, molti dei quali, spesso, prima di intraprendere un viaggio, si premunivano indossando appositi sovraindumenti (i cosidetti "spolverini").
Il materiale rotabile era di fabbricazione estera; in particolare, i locomotori venivano importati dalla Germania (costruiti dalla ditta "Henschel und Sohn" di Kassel) e dal Belgio, costruiti dalla ditta "Les Ateliers Métallurgiques", che aveva sede a Tubize e che con il nome di questa località vennero qui in Italia comunemente denominati.
Una particolarità delle tranvìe a vapore milanesi fu di essere popolarmente denominate "Gamba de Legn" ("Gamba di Legno"). Sull'origine di questo nomignolo ci sono diverse versioni, nessuna delle quali esaustiva; quella più comune è che derivasse dall'andamento lento, ondeggiante e a strappi del convoglio. Di queste locomotive (ed anche carrozze) dei vecchi tranvài a vapore ne rimangono ancora un paio in Italia, di cui una, perfettamente restaurata, presso il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica di Milano.

 Gamba de Legn Milano
Locomotore "Tubize", detto anche "Gamba de Legn"
(Credit: Wikipedia)


Sulle linee tranviarie di quell'epoca non transitavano, ovviamente, solo i convogli passeggeri ma, anche, convogli merci che trasportavano mercanzie e materiali di vario genere. In questo caso il convoglio comprendeva un locomotore (privo delle protezioni per i passeggeri) e tre-quattro vagoni merci. Anche il materiale rotabile di questi "treni merci" veniva prodotto e fornito dalle stesse aziende europee.

La prima tranvìa Ovada-Novi

Sulla storia e sulle vicende della tranvìa Ovada-Novi sono già stati scritti molti articoli, assai completi ed esaurienti, tra cui anche uno di Gino Borsari, pubblicato nel 1971 su "Voce Fraterna", che riguardava in particolare una poesia che fu scritta da Francesco Carlini nel 1881, quando entrò in servizio la tranvìa, articolo che potete trovare QUI.

Prima di affrontare l'argomento bisogna però fare una premessa assai importante. Nell'Italia pre-unitaria di metà Ottocento e fino agli Anni Trenta del secolo seguente lo Stato (allora ancora in via di formazione o da poco creato) non faceva granché. Nel primo mezzo secolo di esistenza dell'Italia come Nazione, buona parte di quello che rappresentava un servizio ai cittadini fu ideato, progettato e realizzato da privati. Si trattava solitamente di famiglie benestanti e con buoni mezzi economici che, spesso costituendo società e con il supporto finanziario di banche (anch'esse private), realizzarono strade, ferrovie, ospedali, linee elettriche, acquedotti e tante altre realtà che fornivano quei servizi che oggi noi siamo abituati a ricevere dallo Stato ed anche qui in Ovada ne abbiamo diversi esempi. La prima centrale elettrica (Mulino dei Frati) fu realizzata dalla ditta privata "Garrone" verso la fine dell'Ottocento; la ferrovia Genova-Ovada-Acqui-Asti fu realizzata nel 1894 dalla ditta "Società per le Strade Ferrate del Mediterraneo" (detta anche "Mediterranea"), la ferrovia Alessandria-Ovada fu realizzata nel 1907 da una società privata appositamente costituita, la "S.A.O. Società per la Ferrovia Alessandria-Ovada", che, per la costruzione, si avvalse di un'altra ditta privata specializzata, la "Società Veneta per le imprese e costruzioni pubbliche" (da qui il nome "ponte della Veneta" con cui viene popolarmente appellato il ponte ferroviario di Regione Orti); il primo acquedotto della città fu realizzato (negli Anni Venti del secolo scorso) anch'esso da una societa privata formata da due famiglie ovadesi i cui discendenti sono oggi ben conosciuti da tutti. Insomma, anche molte realtà cittadine che ci forniscono ancora oggi diversi servizi furono realizzate da privati che investirono le loro risorse finanziarie in progetti che contribuirono in modo determinante allo sviluppo sociale, economico e commerciale della nostra città. La stessa cosa avvenne, ovviamente, per la tranvìa Novi-Ovada.

Già verso la metà del XIX Secolo, precisamente nel 1855, le varie municipalità dei paesi che si affacciavano sulla Valle del torrente Orba (a partire da Ovada e fino a Novi Ligure) avevano ipotizzato la realizzazione di un collegamento permanente di linea, effettuato per mezzo di carrozze a cavalli, che permettesse di effettuare corse giornaliere tra i due centri, effettuando diverse fermate intermedie, per favorire gli spostamenti di persone e di merci. Il progetto, tra ritardi e difficoltà burocratiche di vario genere, trovò attuazione vent'anni dopo, nel 1875, quando venne istituito il primo servizio di linea per trasporto passeggeri tra Novi ed Ovada, servizio che veniva svolto, come previsto, mediante carrozze trainate da cavalli.
L'entrata in esercizio di questo collegamento si rivelò molto utile soprattutto per il fatto che esso favoriva le popolazioni della zona intermedia nel raggiungere, da una parte, Ovada, da cui si poteva poi proseguire per Genova percorrendo la "nuovissima" strada del Turchino, aperta al traffico pochi anni prima e, dall'altra, Novi Ligure, da cui ci si poteva collegare con le altre zone del Basso Piemonte. Il fatto, poi, che già da alcuni anni fosse in funzione la prima linea ferroviaria che collegava Genova con Arquata Scrivia (con una diramazione verso Novi Ligure) e fossero in progetto altre due ferrovie, che verranno poi realizzate rispettivamente nel 1894 e nel 1906, che avrebbero collegato Genova con Ovada ed Ovada con Alessandria, fece aumentare l'importanza del collegamento, tanto che venne fondato un Comitato per la sostituzione delle carrozze trainate da cavalli con una vera e propria linea tranviaria. Al Comitato si affiancò, ovviamente, una società appositamente costituita con capitale misto pubblico/privato, la "S.A.F.V.O. - Società Anonima Ferrovia della Val d'Orba", che fu incaricata della progettazione, realizzazione e gestione dell'impianto.

Per la progettazione del percorso si ritenne opportuno seguire, utilizzandone parzialmente il sedime e per qualche tratto affiancandola, la strada che già collegava Ovada con Novi Ligure e che era già utilizzata dalle carrozze a cavalli. Non per nulla questa strada in Ovada si chiamava (e si chiama ancora) "Via Novi" mentre a Novi Ligure, viceversa, era denominata (e lo è ancora adesso) "Via Ovada".
Per il materiale rotabile si presero come esempio, per l'appunto, le tranvìe milanesi di cui abbiamo già parlato e, ovviamente, anche per la nostra tranvìa furono scelte le macchine e le carrozze migliori di quell'epoca, cioè le "Henschel" e le "Tubize" realizzate, rispettivamente, in Germania ed in Belgio.
Fu così che la tranvìa Ovada-Novi, realizzata per quei tempi a tempo di record (due anni), entrò in servizio, effettuando la sua prima corsa il 2 Ottobre 1881 ed iniziando una storia che durerà quasi settant'anni. Qui di seguito possiamo vedere il suo percorso completo, integrato dalle diramazioni che furono poi "aggiunte" nei decenni successivi:

 Percorso Tranvìa Novi-Ovada
(Credit: Wikipedia)


Il percorso della tranvìa, oltre ai due capolinea (Novi ed Ovada), comprendeva quattro "Stazioni" in cui il treno fermava sempre: Silvano d'Orba, Castelletto d'Orba, Capriata d'Orba e Basaluzzo. Le altre località (Tagliolo, Lercaro, Lerma, Pratalborato, Villa Sauli, Predosa, Sant'Antonio, Michelina e Cattanietta (o Catainetta)) erano "Fermate a richiesta". Eccone di seguito alcune immagini:

 Stazione Novi
Stazione-Capolinea di Novi Ligure
(Credit: Accademia Urbense Ovada)

 Stazione Basaluzzo
Stazione di Basaluzzo
(Credit: Accademia Urbense Ovada)

 Stazione Silvano d'Orba
Stazione di Silvano d'Orba
(Credit: Accademia Urbense Ovada)


e, ovviamente, ecco qui la stazione-capolinea di Ovada Piazza Castello:

 Stazione di Ovada
(Credit: Accademia Urbense Ovada)


Come si può vedere, il convoglio in partenza verso Novi era composto da una locomotiva "Tubize" (o "Gamba de Legn"), da due carrozze passeggeri (una più aperta ed un'altra più "riparata") ed un carro merci/bagagli.
Il fabbricato della stazione era composto da un corpo centrale più alto affiancato da due corpi aggettati laterali più bassi con fronte avanzato. Al piano terreno, nel vano centrale, erano ubicati gli uffici, la biglietteria e la sala di attesa, nel fabbricato laterale di destra era sistemato il caffè-bar per il ristoro dei passeggeri mentre nel fabbricato laterale di sinistra c'era l'ufficio del Capo Stazione. Ai piani superiori c'erano le abitazioni degli addetti alla stazione.

 Stazione di Ovada
(Credit: Accademia Urbense Ovada)


I tre corpi di fabbricato erano sormontati da tre timpani semicircolari. In quello centrale, più grande, era raffigurato un simbolo di difficile interpretazione (forse una colomba con un nastro tricolore) mentre nei timpani laterali erano raffigurati gli stemmi affiancati delle città di Ovada e Novi Ligure, che sono uguali tra di loro e differiscono solamente per la presenza, al centro della croce rossa, nel primo di una stella d'argento ad otto punte e nel secondo di una croce d'argento.

Come abbiamo accennato, nei decenni seguenti alla linea originale si aggiunsero alcune "diramazioni", che servirono a rendere sempre più "integrato" il percorso, favorendone i collegamenti con altre zone e/o linee ferroviarie.
Il primo collegamento, fatto quasi subito, fu quello con la stazione ferroviaria di Novi Ligure, che distava circa quattrocento metri; questo collegamento serviva sia per i passeggeri che da Novi intendevano "prendere il treno per Genova" che per il trasferimento di merci, anch'esse dirette a Genova.
Il secondo collegamento, realizzato nel 1888, fu quello che da Basaluzzo, che funzionava come stazione di cambio, conduceva passeggeri e merci a Frugarolo, passando per Fresonara e Bosco Marengo.
Il terzo collegamento fu, infine, quello che venne realizzato in Ovada dopo il 1906, quando entrò in esercizio la ferrovia Alessandria-Ovada. Fu pertanto "allungato" il percorso da Piazza Castello fino alla "Stazione Ovada Nord" per consentire ai viaggiatori di poter andare (cambiando treno) ad Alessandria oppure, nella direzione opposta, di recarsi alla stazione di "Ovada San Gaudenzio" (ora Stazione Centrale) per potersi imbarcare sui treni per Genova o per Acqui Terme.

La tranvìa Ovada-Novi effettuava quattro corse giornaliere ed il tempo del viaggio era, comprese le soste, di circa due ore.
Nei primi cinquant'anni di funzionamento non vi furono grandi cambiamenti nè riguardo alla gestione nè riguardo al materiale rotabile che, salvo qualche piccolo aggiornamento, rimase pressochè uguale. Non conosciamo i motivi, ma è certo (lo si vede dalla successione temporale delle fotografie dell'epoca) che i lavori di manutenzione sia alla linea che alle stazioni non fossero una delle priorità della gestione da parte della "S.A.F.V.O.". In questa fotografia, risalente circa al 1910, si può vedere l'edificio della stazione di Ovada che già denota segni di degrado dovuti, evidentemente, alle infiltrazioni di umidità sia dalle coperture che per osmosi dal terreno.

 Stazione di Ovada 1910
(Credit: Accademia Urbense Ovada)


Nel decennio seguente, a livello europeo, il panorama della tecnica ferrotranviaria cambiò in modo sostanziale. Le macchine a vapore si stavano rivelando troppo costose, di complessa e difficile gestione e la loro tecnologia era ormai troppo "datata" per rimanere al passo delle esigenze del trasporto nelle tratte brevi. Fu così che, negli Anni Venti del secolo scorso, dapprima in Germania e seguentemente in tutti i Paesi Europei, si iniziarono a progettare e realizzare carrozze ferroviarie per trasporto passeggeri che erano dotate di un proprio motore endotermico a benzina o a nafta. Queste carrozze, per la loro particolarità di essere singolarmente "motorizzate", potevano essere impiegate sia da sole che in convoglio e presentavano caratteristiche e prestazioni che i treni a vapore non potevano fornire. A prescindere dalla velocità che potevano raggiungere (fino a 110 chilometri all'ora), queste carrozze erano particolarmente curate per garantire la massima comodità dei passeggeri.
Questa radicale evoluzione del trasporto ferrotranviario, ovviamente, interessò anche la tranvìa Novi-Ovada ed è così che passiamo alla seconda parte della nostra storia.

Arriva la "Littorina"!

Come abbiamo accennato, negli Anni Venti del Novecento la tecnologia tedesca creò quella che divenne in brevissimo tempo la "rivoluzione" nel campo ferrotranviario: l'automotrice.
Si trattava (e si tratta ancora oggi) di una carrozza ferroviaria appositamente progettata che oltre ai posti a sedere (ed in piedi) per i viaggiatori, era dotata di un motore endotermico a benzina o a nafta che le consentiva di viaggiare da sola, senza bisogno di locomotori di traino.
Questo tipo di carrozza poteva trasportare 48 passeggeri seduti ed una decina in piedi sulle piattaforme di testa e di coda. La struttura era, per quei tempi, progettata secondo le regole dell'aerodinamica e la comodità del viaggio era, sempre per gli standard dell'epoca, veramente ottima. Due file laterali di dodici doppi sedili (una per lato) imbottiti e rivestiti in pelle (con un corridoio centrale per il transito), un riscaldamento efficiente e la presenza di una "ritirata" (gabinetto) garantivano un comfort di viaggio veramente ottimale. I posti di guida (o manovra) erano due, ubicati ai due estremi della carrozza e, per questo motivo, queste automotrici potevano viaggiare nei due sensi di marcia opposti semplicemente "trasferendo" il macchinista (o manovratrore) da una cabina di comando all'altra ed invertendo il senso di rotazione della trasmissione.
Questo tipo di carrozza (che qui in Italia venne classificata -e lo è tuttora- con la sigla "AL", cioè "Automotrice Leggera") fece la sua prima apparizione sulle strade ferrate italiane verso la fine degli Anni Venti, quando alcune ditte (in particolare la FIAT e la BREDA) iniziarono a produrle su licenza tedesca e nel giro di meno di un decennio andarono a sostituire molto del materiale rotabile a vapore che fino ad allora viaggiava sulle linee secondarie.
Le Automotrici Leggere inizialmente erano dotate di motori a nafta o a benzina; in seguito ne furono approntate anche con motori a gas e, a partire dagli Anni Cinquanta del secolo scorso, con la progressiva elettrificazione delle linee, anche con motore elettrico.
La particolarità, tutta italiana, di queste carrozze ferroviarie fu che, a partire dal 18 Dicembre 1932, esse vennero popolarmente soprannominate "Littorine", e questo soprannome è spesso utilizzato ancora oggi. Ma da che cosa deriva, esattamente, la parola "Littorina"?

Storia del simbolo del Fascio Littorio

La parola "Littorio" deriva dal vocabolo latino "Lictor", che significa "colui che lega, unisce, mette insieme". Questa definizione, in origine, indicava quelle persone che, in agricoltura, raccoglievano piccoli tronchi e rami e li legavano in fasci -assieme alla scure con cui li avevano tagliati- per poterli trasportare agevolmente a spalla (esattamente come facevano i nostri vecchi quando andavano a fare legna e "legavano le fascìne").
Col tempo, nell'Impero Romano, il "Fascio Littorio" (cioè la fascìna di legna con la scure) divenne un simbolo "politico" che andava a contraddistinguere alcune categorie di persone che esercitavano un potere (giuridico, amministrativo o religioso) e, in ultima accezione, divenne il simbolo di chi deteneva il potere supremo, anche quello di vita o di morte (l'Imperatore o i Giudici dei Tribunali).
Del simbolo del Fascio Littorio si persero poi le tracce per quasi un paio di millenni, fino alla metà dell'Ottocento quando, con la riscoperta delle simbologie antiche (egizie, greche, romane ed orientali), tale simbolo, assieme a tanti altri (tra cui la per noi famigerata croce uncinata (o, dal linguaggio Sanscrito, "Svastica") che, raffigurata sia destrorsa che sinistrorsa in Oriente simboleggia il Sole, l'Infinito ed è un simbolo di buon augurio, mentre nella Germania di fine Ottocento divenne dapprima il simbolo dei movimenti nazionalisti e, poi, l'emblema del Partito Nazionalsocialista), divennero di uso comune nell'arte decorativa di quell'epoca.
Il simbolo del Fascio Littorio divenne così molto comune sia in Europa che negli Stati Uniti, dapprima con una valenza principalmente architettonica e/o decorativa e, poi, con un significato che riportava specificatamente alle sue origini, cioè all'azione di legare, unire, mettere insieme. Questa interpretazione fu particolarmente "sentita" negli Stati Uniti d'America dove, lo sapete bene, il motto nazionale è "E pluribus unum" che significa, letteralmente, "Dai molti (Stati) un unico (Stato)" cioè, per l'appunto, tanti Stati Uniti tra di loro. Questa simbologia è tuttora molto rappresentata nei luoghi più importanti della storia americana e se siete stati a Washington (District of Columbia) avrete potuto vedere decine di Fasci Littori tra cui, al Lincoln Memorial, la statua in marmo di Lincoln seduta su di un trono sorretto da due grandi Fasci Littori oppure, nell'aula del Congresso Statunitense, due enormi Fasci Littori dorati sulla parete di fondo ai lati della bandiera americana e del motto "In God we trust" ("Confidiamo in Dio") o, ancora, nella rotonda di Capitol Hill, la statua in bronzo di George Washington appoggiata ad un robusto Fascio Littorio.
Anche qui in Italia, come altrove, il Fascio Littorio fu adottato in prima battuta come elemento ornamentale e decorativo. La musica cambiò quando, dopo il primo Conflitto Mondiale, si affacciò sulla scena italiana il nuovo movimento politico creato da Mussolini. Egli (dopo essere stato dapprima anarchico e poi socialista) prese come simbolo del suo movimento proprio il Fascio Littorio, ma nel suo significato "imperiale", cioè come emblema del comando e del potere assoluto (cioè simbolo di autocrazia e dittatura). Fu proprio da questo simbolo che prese il nome il movimento (ed il seguente partito) "Fascista", che governò l'Italia dal 1922 al 1945.
Con la caduta del Regime Fascista molti simboli del Fascio Littorio furono demoliti, distrutti e/o cancellati; in seguito, dapprima con la "Legge Scelba" del 1952 e, poi, con seguenti altre disposizioni di legge più recenti (anche europee), è fatto divieto di rappresentare ed utilizzare simbologie del Partito Fascista e del Partito Nazionalsocialista.

La "nuova" stazione

Verso la metà degli Anni Trenta del secolo scorso, dunque, arrivarono anche in Ovada, alla stazione della nostra tranvìa, le prime "Littorine", che presero tale soprannome dall'articolo "celebrativo" di un giornalista che il 18 Dicembre 1932, presente alla cerimonia di inaugurazione della nuova città di Littoria (adesso si chiama Latina), dopo aver visto il "Duce" ed il codazzo di gerarchi arrivare a bordo di un'automotrice leggera, la citò con quel nomignolo, che venne poi adottato in tutta Italia.
Qui di seguito possiamo vedere una foto che, con tutta probabilità, si riferisce proprio al giorno dell'arrivo in Piazza Castello del nuovo materiale rotabile (in provenienza dalla Stazione Nord), che avvenne sicuramente dopo l'anno 1936 poiché sullo sfondo della foto, che inquadra "il Borgo", si vede chiaramente "il Casone", cioè uno dei fabbricati realizzati -appunto- nel 1936 per ospitare le famiglie dei superstiti del disastro del crollo della diga di Ortiglieto, avvenuto l'anno precedente.

 Arrivo Automotrici
(Credit: Accademia Urbense Ovada)


Nella foto, a parte il grande afflusso di Ovadesi accorsi per vedere la novità, si possono notare gli addobbi a festa della zona e, ancora, la "vecchia" stazione, abbastanza malmessa ed in cattive condizioni di manutenzione.
L'arrivo del nuovo materiale rotabile fu, con tutta probabilità, il primo intervento di "ammodernamento" intrapreso dalla nuova società che, nel 1933, era subentrata alla vecchia "S.A.F.V.O.". La nuova società, anch'essa a capitale misto, aveva la denominazione "F.V.O. - Società Ferroviaria Val d'Orba" e negli anni seguenti, fino allo scoppio del Secondo Conflitto mondiale, effettuò diversi interventi di manutenzione ed ammodernamento sia del materiale rotabile che della linea e delle strutture.
In effetti, come abbiamo già accennato, le Automotrici Leggere potevano raggiungere la ragguardevole velocità massima di 110 Kmh, a patto però di transitare su di una linea che potesse sopportare tale velocità. La linea originale, per caratteristiche di progettazione e di realizzazione, era adatta al transito di convogli a vapore assai lenti e, per adeguarla al transito delle nuove vetture avrebbe dovuto essere totalmente ricostruita. Ci si accontentò di "rinnovarla" un po', ammodernandone qualche tratto (furono sostituiti circa 17 chilometri di binario) e dotandola di più moderni dispositivi di gestione. Questo consentì di aumentare un poco la velocità di crociera che, nei casi migliori, comunque non superò mai i 30-40 chilometri orari. Questo modesto aumento di velocità consentiva tuttavia di dimezzare il tempo di percorrenza che, in condizioni ottimali, si aggirava (comprese le fermate) intorno all'ora di viaggio.

Ma, oltre alle migliorìe al percorso ed al nuovo materiale rotabile, l'intervento più "appariscente" che fu fatto in Ovada, probabilmente verso il 1939-1940, fu il "rifacimento" della stazione. Eccola in tutto il suo rinnovato splendore con una "Littorina" ALn556 (motore a nafta) pronta per la partenza:

 Nuova Stazione
(Credit: Accademia Urbense Ovada)


Apparentemente la stazione sembra nuova ma, in effetti, si tratta solo di un restyling di quella originale.
Non sappiamo chi fosse l'architetto che fece il progetto; sicuramente la sua idea era quella di "aggiornare" il vecchio fabbricato rendendolo più rispondente alle tendenze architettoniche che andavano caratterizzando le nuove realizzazioni di edifici pubblici nella Roma "neoimperiale" di quei tempi facendo largo uso di un curioso misto tra l'architettura razionalista e gli stilemi dell'antica Roma che prese il nome di Classicismo Essenzializzato e che vide nell'architetto Marcello Piacentini il suo maggiore esponente. Se a Roma gli effetti di questa corrente architettonica diedero diversi ottimi risultati, primo fra tutti il cosidetto "colosseo quadrato" del complesso urbanistico dell'EUR (iniziato nel 1937 e che avrebbe dovuto essere completato per l'Esposizione Universale di Roma del 1942, che non ebbe luogo per lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale), altrettanto non si può dire per molte realizzazioni in diverse città d'Italia e, men che meno, per la stazione ovadese della tranvìa Novi-Ovada che si rivelò, semplicemente, una "squadratura" del vecchio fabbricato con l'inserzione (ma solo nella facciata principale), al posto delle vecchie finestre con persiane, di nuove finestre con semiarco superiore in stile "romano" dotate di tapparelle. La parte centrale rialzata venne modificata ed inglobata in un sottotetto (perdendo diversi vani abitabili) mentre tutto il resto, terrazzo centrale compreso, rimase com'era. Venne quindi realizzato un nuovo solaio ed una nuova copertura in tegole; un nuovo intonaco ed una nuova coloritura esterna completarono l'operazione di "maquillage". In definitiva, si ottenne il massimo risultato (si fa per dire) con il minimo sforzo (economico) possibile.

La linea e la "nuova" stazione continuarono a funzionare ancora per quasi un decennio, anche durante la Seconda Guerra Mondiale quando fu, come tutte le linee ferroviarie della zona, oggetto di bombardamenti, incursioni aeree e mitragliamenti che causarono rilevanti danni tra cui anche la completa distruzione della stazione capolinea di Novi Ligure. Al termine del conflitto le condizioni della linea, del materiale rotabile e delle strutture si rivelarono assai degradate ma, nonostante ciò, il servizio proseguì ancora per qualche anno. La mancanza di fondi e la difficoltà di reperimento di materiali portò però dapprima alla chiusura della diramazione Basaluzzo-Frugarolo, che venne dismessa nel 1948. La linea Novi-Ovada funzionò ancora, in modo alquanto fortunoso, per altri cinque anni, fino al 1953, quando venne anch'essa definitivamente chiusa.
I binari furono tolti e il loro sedime fu utilizzato per l'ampliamento della carreggiata della strada che li affiancava, dando origine alla strada (Provinciale 155) che attualmente collega i due capoluoghi. Le strutture delle stazioni e delle fermate ebbero diversi destini; alcune furono demolite, altre inglobate in altri fabbricati, altre ancora furono vendute e destinate ad altri usi. La stazione di Ovada, acquisita al patrimonio immobiliare comunale, rimase probabilmente l'unica struttura che mantenne le sue caratteristiche nei decenni seguenti fino ad alcuni anni fa. Il Bar-Caffè si trasferì nei locali centrali precedentemente adibiti a biglietteria mentre al suo posto si installarono dapprima attività promozionali e turistiche e, poi, una tabaccheria-ricevitoria; nei locali di sinistra dov'era l'ufficio del Capo Stazione venne ubicata un'edicola di giornali. Tutte queste attività rimasero al servizio non più delle persone che prendevano il trenino, bensì di quelle che in Piazza Castello prendevano i vari autobus per i Paesi vicini. Anche i locali del piano superiore continuarono per molti anni ad ospitare civili abitazioni. Qui di seguito due fotografie della stazione negli Anni Ottanta e Novanta del secolo scorso:

 Stazione Ovada 1980
(Credit: Accademia Urbense Ovada)

 Stazione Ovada 1990
(Credit: Gruppo FB "Le belle foto di Ovada")


Negli anni successivi, a causa della progressiva chiusura e/o trasferimento delle varie attività, i locali della stazione si sono svuotati ed oggi il fabbricato risulta completamente abbandonato. La mancanza di utilizzo e di manutenzione hanno poi fatto si che tutta la struttura aggravasse nel tempo le sue condizioni, che oggi si presentano così:

 Stazione Ovada oggi
(Credit: Gruppo FB "Le belle foto di Ovada")


Qualche dato

Prima di chiudere questa trattazione, qualche dato sulla tranvìa Novi-Ovada:

- Il percorso totale copriva una distanza di 23 chilometri e 227 metri;
- 16 chilometri della linea utilizzavano come massicciata una parte della strada carrozzabile;
- 7 chilometri viaggiavano su sede separata dalla strada.

La tranvìa era a scartamento ordinario, cioè con l'interasse tra i binari uguale a quello delle ferrovie tradizionali. Ciò permetteva il collegamento diretto, tramite scambi, con le ferrovie con cui era collegata (Novi Ligure e Ovada Nord).

Il parco del materiale rotabile (Locomotori a vapore e Automotrici leggere) impiegato durante il periodo di servizio comprese, nell'ordine: 3 locomotori a vapore Henschel (costruzione tedesca), 6 locomotori a vapore "Tubize" (costruzione belga), 7 Locotender a tre assi di probabile costruzione italiana (Breda) e 5 Automotrici Leggere Fiat ALn56.

Presso le stazioni capolinea (Novi e Ovada) erano ubicati due depositi per il materiale rotabile. Il deposito ovadese è ancora esistente, si trova nell'area adiacente alla via Novi di fronte al bivio con Strada Tagliolo e fino a qualche anno fa era adibito a deposito degli Autobus di una ditta di gestione autolinee della zona.

Conclusione

In questo articolo abbiamo ripercorso, anche se per sommi capi, le vicende di quella che fu, a tutti gli effetti, la prima ferrovia ovadese della storia. Nei suoi settant'anni di esistenza e di funzionamento accompagnò la vita di alcune generazioni di Ovadesi che la utilizzarono per lavoro, per necessità o, magari, anche solo per togliersi la soddisfazione di "andare a fare un giro a Novi".
Curiosamente oggi, quando a bordo della nostra auto (magari una silenziosissima e comodissima Tesla Model S elettrica) percorriamo la Provinciale per Novi, non ci rendiamo conto di stare viaggiando sullo stesso, preciso itinerario su cui, con ogni probabilità, i nostri nonni avevano viaggiato a bordo di una scomodissima carrozza aperta alle intemperie e "tirata" da una lenta, brutta, fumosa e puzzolente "Tubize".

Nel contempo abbiamo anche visto le vicende della stazione ovadese della tranvìa, luogo dove -anche qui- generazioni di nostri concittadini (e di forestieri) hanno preso un caffè aspettando l'arrivo del treno, hanno acquistato il giornale, hanno accompagnato parenti in partenza od accolto persone care in arrivo. E' un pezzo della nostra storia, un pezzo di storia che, se avrà sèguito il progetto di sistemazione di cui parlavamo in apertura, potrà essere recuperato.
Dalle notizie apparse sulla stampa locale parrebbe che il progetto preveda -se e qualora possibile- il recupero del fabbricato nelle sue linee originali, cioè quelle del 1881. Non sappiamo se ciò sia effettivamente previsto nè se sarà realizzabile.
Se, però, dictis facta respondent, cioè se alle parole seguiranno i fatti (e ce lo auguriamo), chissà, forse tra qualche tempo in Piazza Castello potremmo (ri)vedere una cosa molto simile a questa:

 Rendering Stazione Ovada futuro
(Foto ed elaborazione grafica: F.Borsari)