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Ovada nel Medioevo - Diritto Civile


Abbiamo raccolto sotto questo titolo tutte quelle norme che, negli Statuti ovadesi, regolano lo stato delle persone, i rapporti di famiglia, le successioni, la proprietà e i contratti.
Indipendentemente dal Diritto costituzionale, che già abbiamo trattato nella prima parte del nostro lavoro sotto il titolo di gestione amministrativa, troviamo nella numerosissima elencazione di articoli, che comprendiamo in questo capitolo, una quantità di norme che non solo riguardano il diritto civile in generale, ma che. confrontandole con la giurisprudenza moderna, potremmo benissimo definire come modelli incompleti ed un po' superficiali di diritto comune, di diritto commerciale, consuetudinario, del lavoro e, qualche rarissima volta, anche se molto labile, di diritto diplomatico ed ecclesiastico.
Senza scendere nella analisi particolareggiata di certi argomenti che sono comuni e spesso ripetuti, cercheremo di raccogliere per gruppi queste norme, analizzandole.

Si premette che tutti gli atti pubblici, privati, di compra-vendita, di passaggi, di testamenti, di lasciti, di dotazioni ecc. che erano fatti in Ovada e che necessariamente, per essere legali, avevano bisogno della rogazione notarile, non potevano essere stilati se non da un notaio che fosse del borgo di Ovada. Gli atti pubblici di Curia, anch'essi, dovevano essere redatti esclusivamente dal notario della Curia ovadese; nessun notaio forestiero o fuori giurisdizione di Ovada poteva nè doveva fare atti che riguardassero cittadini, cose ed interessi del borgo di Ovada. Nel caso che questo fosse avvenuto, sia il notaio che il suo cliente erano in multa di cento soldi genovesi e gli atti così rogiti non potevano per nessun caso essere validi e neppure potevano essere usufruiti come validi fuori del Comune di Ovada.
Per gli stessi motivi di carattere politico-amministrativo locale, nessuna persona di Ovada poteva erigersi a procuratore degli interessi di forestieri e chi lo avesse fatto era punito con la multa di cento soldi genovesi.
Il Podestà, se fosse venuto a conoscenza di fatti nei quali persone di altro stato che non fosse quello genovese, avessero recato danni a persone o cose di Ovada che si trovassero fuori stato per causa di convenzioni o scambi (art. 187 "de laudibus et represaliis") con altri stati, era tenuto a convocare immediatamente il Consiglio per decidere le eventuali rappresaglie, studiare il risarcimento affinchè l'eventuale colpevole potesse restituire il maltolto e questo doveva farsi secondo la legge del territorio del colpevole.
Basilare era la disposizione che ammetteva al gratuito patrocinio gli orfani, i minori di quindici anni, le vedove ed i poveri e che, a differenza della giurisprudenza moderna che molto più saggiamente ammette al gratuito patrocinio soltanto i poveri considerati appunto come tali e nullatenenti, alla lettera degli Statuti del 1327 potremmo pensare che vedove, orfani e minori, anche se ricchi, avessero diritto alla difesa gratuita.
La procedura che veniva seguita per il trattamento delle vertenze e dei processi è molto vicina alla nostra procedura civile. In effetti era un complesso degli atti da cui derivava infine un giudizio; esisteva come oggi l'introduzione della causa che era un procedimento che si iniziava con la citazione con la quale l'attore, cioè chi promuoveva il giudizio, indicando l'oggetto della sua domanda ed i mezzi di prova, faceva intimare dal Podestà al convenuto di costituirsi in giudizio entro un dato termine.
Come oggi, anche allora gli atti venivano depositati alla Curia e il giudice era sempre il Podestà o il suo Vicario. La trattazione della causa era in prevalenza orale. Il Podestà regolamentava l'ammissione delle prove, assumeva egli stesso prove redigendo i verbali, riceveva i giuramenti, ascoltava i testimoni, procedeva alle ispezioni ed alle indagini ed infine giudicava.
Oggi, questa procedura è più complicata di non quanto fosse allora, ma lo scopo ed il fine sono più o meno uguali.
Di solito le vertenze che venivano trattate in quei tempi erano basate su liti per riscossione di debiti non pagati, su compra-vendita di terreni e beni immobili e, massimamente, su i diritti di famiglia come potrebbero essere: le successioni, le doti, i lasciti, le donazioni, i testamenti, ecc.
I debitori dovevano pagare ogni loro debito e, qualora non ne avessero avuto le possibilità, dovevano essere tenuti prigionieri nel carcere del castello ad istanza dei loro creditori e vi dovevano essere trattenuti fino a che non fossero stati in grado di pagare, a meno che altri pagassero per loro o qualcuno garantisse per il loro debito.
I forestieri debitori di qualcuno di Ovada e con debito superiore ai dieci soldi genovesi, dovevano essere anch'essi trattenuti personalmente, però le spese per questa detenzione erano a carico del creditore, che ne poteva avere rivalsa a causa definita.
Era consuetudinario, come abbiamo già visto, il pignoramento ordinato dal Podestà sui beni di coloro che non pagavano; se questi ultimi fossero stati forestieri ed avessero avuto beni nel Distretto di Ovada, il Podestà era tenuto a farli ricercare e a pignorarli, previa regolare Grida di pignoramento che dava tempo tre giorni all'interessato forestiero per presentarsi a saldare il suo debito. Tale Grida poteva essere protratta fino a sei giorni se non fosse stato trovato personalmente l'interessato, dopo di che il Podestà, dopo aver pignorato i beni, li faceva valutare dagli Estimatori, allo scopo di rimborsare il creditore. Il pignorato poteva opporsi pagando ed in questo caso il Podestà gli poteva concedere un lasso di tempo di trenta giorni, dopo di che, a pagamento avvenuto, il pignoramento veniva annullato e la cosa pignorata restituita o al suo proprietario oppure a colui che aveva garantito per il suo debito.
Erano esclusi dal pignoramento i beni dotali o legati da vincoli testamentari, nè si potevano prendere od avere, nè essere stimati tali beni. Non si potevano dare in pagamento o in pegno ai creditori indumenti personali, biancheria da letto propria o di proprietà della moglie o dei figli, nè le loro armi e il Podestà non poteva imporre questa forma di pagamento se non con il beneplacito degli interessati.
I pegni che venivano versati e non più riscattati per soluzione di debiti, venivano poi venduti pubblicamente nei giorni festivi nella Platea Communis a mezzo del Nunzio del Comune e potevano essere venduti solo a cittadini di Ovada e non di fuori.
Soggetti a pignoramento ed a pegno erano anche tutti coloro che non potessero pagare le multe, le tasse o i bandi emessi a loro carico dal Comune di Ovada e la procedura per la estinzione di tali debiti era la stessa che per quelli dei privati.
I creditori o l'amministrazione pubblica, che avessero ricevuto la soluzione dei loro crediti, dovevano rilasciarne regolare ricevuta con atto notalire o di Curia per comprovare l'estinzione del loro credito. Nessuno poteva esimersi da tale norma.
Il debito pagato non poteva più essere richiesto e nessuno poteva, di propria autorità, trattenere cose od immobili o terre dai suoi debitori se ciò non fosse stato disposto dall'autorità costituita.
Esisteva anche allora un termine di prescrizione sia per le multe, sia per le condanne; termine che andava da un minimo di dieci anni ad un massimo di trenta e per il quale, scaduti detti termini, il reo o il debitore non poteva più essere perseguito, nè i suoi creditori richiedere risarcimenti o danni.
Le citazioni per le vertenze private venivano fatte dal Podestà e pubblicate sempre a mezzo grida che venivano lette nella Loggia Pretoria e proclamate per il borgo quando non si trovavano personalmente gli interessati. Tali Grida venivano annunciate per un lasso di tempo che variava da tre a dieci giorni, dopo di che se i contendenti o uno di loro non si fossero presentati a difendere i loro interessi oppure le loro cause di fronte al Podestà, tali vertenze venivano definite d'ufficio con le modalità che abbiamo più sopra specificato. Altrettanto si faceva per i debiti pubblici.
Gli usurai che avessero prestato denaro ad usura, non potevano avvalersi di alcuna protezione legale; anzi erano essi stessi gravemente puniti sia dal diritto civile che da quello canonico per la loro usura, se questa fosse stata scoperta.
A questo proposito merita di essere ricordato un atto del Vescovo di Acqui, Enrico Scarampi, il quale in data 19 Aprile 1395 ordina la esumazione da territorio consacrato di un certo Jacopo, pubblico usuraio, morto in Ovada e sepolto in terra consacrata. Gli eredi dell'usuraio, nonchè il Parroco di Ovada, dovettero comparire davanti al Vescovo, producendo un atto notarile nel quale gli eredi danno sicurtà di restituire in elemosina ai poveri tutto il maltolto; in seguito a ciò il Vescovo revoca il suo decreto ed assolve il defunto dalla scomunica.
Nei processi importanti, troviamo inoltre, che già fino da allora esisteva la legittima suspicione, in quanto l'art. 72 degli Statuti prevede per legittimo sospetto, la rimessione della causa ad altro collegio.
A differenza di oggi che la suspicione viene applicata quando vi sia il sospetto che il giudice penale o civile possa essere influenzato dall'opinione pubblica del luogo in cui è avvenuto il reato o vi risiedano persone implicate nel procedimento, negli Statuti ovadesi, il sospetto, a nostro avviso, è più che altro applicato ai giudicanti stessi, tant'è vero che l'intestazione dell"art. 72 intende proprio questo "de suspectis judicibus". Dato però che le cause venivano sempre definite dal Podestà o dal suo Vicario, dobbiamo pensare che nella parola "Judicibus" non si intenda la persona del Podestà che deve giudicare, ma il complesso del Collegio dei Sapienti, dei giurisperiti, dei testimoni e dei procuratori che potevano essere sospetti per una delle parti in causa e, talvolta, per tutt'e due.
Lo stesso Podestà infatti, in questo caso, è tenuto a fare spostare la sede del dibattimento fino a una distanza da Ovada non superiore alle trenta miglia, a meno che le parti siano d'accordo per farla trattare in Ovada con un altro collegio.

Per quanto riguarda le questioni testamentarie, i beni dotali, ecc.,vediamo subito che nessuna moglie poteva cambiare le disposizioni già fatte dal marito, nè pretendere beni di lui perchè tali beni andavano agli eredi diretti del consorte. Alla moglie restava la sua dote ed essa non poteva pretendere altra dotazione se non quella di sua stretta pertinenza, a meno che gli eredi le passassero un qualche cosa a titolo di alimenti, nel caso che l'ammontare della dote non fosse sufficiente al suo vitto giornaliero.
Le figlie maritate e che avessero già avuto la loro regolare dotazione, non avevano alcuna possibilità di succedere nei beni del padre morto, perchè i beni del padre, per diritto consuetudinario, andavano ai figli maschi e particolarmente al primogenito.
Nel caso morisse il padre senza aver dotato una figlia, questa non avrà diritto come erede, ma la sua dote sarà stabilita da due parenti consanguinei di parte paterna, oppure, in loro mancanza, da due vicini di casa buoni e giusti, stabiliti dal Podestà o dal Vicario.
In ogni caso la donna dovrà essere sempre tacita e contenta di quello che è stato per lei stabilito per dote, anche nelle forme che abbiamo citato sopra: "de muilieribus quae debent esse tacitae et contentae de dotibus suis".
Un poco strana ci sembra la disposizione che, pur vietando che nessuna donna succeda in alcun modo ai suoi figli, dispone, nel caso che questo figlio premorto alla madre non abbia fratelli o sorelle paterni o carnali da parte del padre, che la madre possa succedergli nei beni.
La moglie che eventualmente premorisse al marito e lasciasse dei figli o dei nipoti, questi possono succedere nella dote che diede al marito ed in tutti gli altri eventuali beni.
Nel caso non avesse figli, succederanno per metà il padre, i fratelli e le sorelle e per l'altra metà il marito. In caso di assoluta mancanza di padre, fratelli e sorelle, essa può lasciare la quarta parte dei suoi beni a chi vuole, purchè non li lasci a persone che rifiutino di pagare le tasse. Per il rimanente le succeda il marito.
Se qualche uomo sposato morisse mentre è ancora viva la moglie e lasciasse eredi diretti, la donna non possa ereditare nè il suo letto nè i panni del letto, nè corone di perle o argento o anelli d'oro, nè i panni che si usavano i giorni festivi, ma possa soltanto usufruirne con i figli o per il loro uso. Dovrà restare casta e senza uomo e condurre vita vedovile, a meno che si risposi regolarmente.

Qualsiasi persona minore di anni venticinque non può fare donazioni, permute, vendite nè si può obbligare verso qualcuno o promettere qualcosa a qualcuno e nessun atto o contratto egli possa fare fino a che non abbia conseguito la maggiore età, che a quei tempi era di venticinque anni. Qualsiasi atto fatto da persone minori non era ritenuto assolutamente valido.
I figli o le figlie, minori o maggiori di venticinque anni, non potevano obbligarsi, promettere, vendere, donare, permutare o fare contratti fino a che le femmine erano poste sotto la patria potestà ed i maschi fino a che fosse stato vivo il padre.
C'era però allora, come oggi, la possibilità dell'emancipazione del minore che, soltanto in questo caso, gli permetteva di agire indipentemente.

Nell'eventualità che vi fossero stati beni vacanti e che non se ne conoscessero l'eventuale o gli eventuali eredi, il Podestà doveva farne fare ricerca con bando e grida pubblicati dal Nunzio del Comune per il borgo. Se non si fosse ritrovato il proprietario, questi, allo stesso modo, doveva essere ricercato e se non lo si fosse trovato, il Podestà era tenuto a nominare un curatore di questi beni, scelto possibilmente tra il più vicino dei parenti del presunto possessore e che si pensasse avesse diritto su detti beni. Se questo parente non fosse stato anch"esso reperibile, si doveva nominare curatore dei beni uno dei Nunzi del Comune.
Nel caso che un proprietario fosse stato vivente ed assente ovvero irreperibile ed i figli o gli eredi reclamassero tali beni, l'irreperibile era dato come morto presunto. La curatela dei beni doveva essere pagata al curatore.
Alcune disposizioni riguardanti la cessione di beni o le compravendite, hanno uno spiccato carattere politico e di salvaguardia e difesa sia del territorio sia delle proprietà e dei beni che in questo territorio sono posti; infatti troviamo che nessuno poteva vendere, alienare o in qualunque modo trasferire proprietà a persone, collegi, comunità od altri enti, qualsiasi denominazione essi avessero e che fossero immuni dal pagamento di tasse, dazi, gabelle o altri oneri verso il Comune di Ovada. L'eventuale trasgressore, in questo caso, era multato di ben dieci lire genovesi ed inoltre, sia lui che i suoi eredi dovevano sostenere tutti gli oneri che queste proprietà alienate avevano verso il Comune di Ovada. Il Podestà aveva l'obbligo di ricercare diligentemente e perseguire con estrema severità questi trasgressori.
Inoltre, le terre, gli immobili e le proprietà che si trovassero a distanza inferiore di duecento pertiche (misura di superficie che in quei tempi era pari a 600 metri quadrati. Cfr. Rocca o.c.) dai confini del borgo e verso il borgo stesso, non potevano in alcun modo essere trasferite, alienate o vendute a collegi, comunità e tanto meno a forestieri. La sanzione per queste trasgressioni era gravissima: ammontava a cinquanta lire genovesi e la proprietà in questione veniva sequestrata ed incamerata dal Comune di Ovada ed il trasgressore doveva pagare ugualmente tutte le tasse e i tributi che erano di spettanza del Comune.
Tutti i forestieri proprietari di terre, possessioni od immobili siti nella giurisdizione del Comune di Ovada erano obbligati a fare registrare queste loro proprietà nei Libri della Comunità ù ovadese, dovevano pagare tutte le imposte, i dazi, le avarie che venivano loro imposte dal Comune di Ovada e, nel caso non pagassero queste imposizioni, la terra non poteva essere in alcun modo coltivata, ma tenuta gerbida e, se qualcuno l'avesse lavorata e ne avesse raccolto i frutti, doveva pagare la multa di cinque lire genovesi e i frutti gli venivano confiscati.
Gli eventuali danni che in queste terre fossero stati arrecati da persone o bestie di Ovada, non potevano e non dovevano in alcun modo essere risarciti.
Nel caso che qualcuno avesse dovuto vendere terreni o proprietà o beni immobili, era tenuto, prima ad interpellare i suoi consanguinei maschi più prossimi, poi i vicini e che questi avessero un diritto di prelazione su tutti gli altri.

Gli evasori fiscali, o perlomeno coloro che non avessero pagato le tasse entro i limiti prescritti, erano puniti con la confisca dei loro beni nella cifra dovuta al Comune, con l'aggiunta delle spese sostenute per il caso.

Tutti i lavoratori avevano diritto al loro salario ed il Podestà doveva far rispettare questo diritto ingiungendo ai datori di lavoro di pagare la giusta mercede ai loro dipendenti. Quei padroni che non avessero pagato il dovuto entro un anno, non solo erano multati, ma si poteva altresì rivalersi sui loro beni per solvere il debito.
In certo qual modo era salvaguardato anche un diritto al lavoratore di usufruire di permessi per motivi vari, che il padrone era tenuto a concedere ed a retribuire fino a quindici giorni.
Di per contro, il servitore che avesse avuto in manutenzione o in coltivazione un appezzamento di terreno e che lo avesse abbandonato per un anno senza il permesso del padrone, doveva restituire l'appezzamento più le spese e il danno che avesse provocato con il suo abbandono.
I servitori, i valletti, i vassalli che, per qualsiasi motivo, avessero arrecato danni a cose, persone o proprietà altrui, rispondevano essi stessi per quanto avevano commesso ed il loro padrone non ne era tenuto responsabile.
Il lavoro era assolutamente vietato nei giorni festivi e particolarmente nei giorni della Natività, della Resurrezione, dell'Ascensione, nelle ricorrenze dei Santi Pietro e Paolo e degli Apostoli, nelle particolari festività di S. Bernardo, S. Silvestro, S. Michele, S. Martino, S. Gaudenzio, S. Ambrogio, dei SS. Nazario e Celso e di S. Evasio, nonchè nelle festività della Parrocchia o delle Parrocchie alle quali appartenesse il lavoratore. La multa per coloro che avessero lavorato nei giorni proibiti era di cinque soldi genovesi, salvo che i lavori fossero ordinati dal Comune, oppure fossero per il sostentamento di orfani e vedove, ovvero per la necessità di non lasciar deperire cose, frutti e alimenti che non potevano essere trascurati; inoltre la sanzione non veniva comminata nel periodo del raccolto delle messi, della vendemmia e in periodi di guerra. Come abbiamo già detto in precedenza, i proventi contravvenzionali per queste infrazioni non erano di pertinenza del Comune, ma venivano devoluti per il mantenimento dell'olio nelle lampade della chiesa parrocchiale.
I fornai inoltre avevano facoltà di cuocere le focacce e i pani nei giorni festivi.

Curiose e significative per il costume dei tempi sono queste due disposizioni:
La prima stabilisce che nessuna persona, maschio o femmina, possa piangere o battere le mani dietro i cadaveri, dopo che questi sono stati portati fuori dalla casa o dal sedime e che le madri, le figlie, le mogli, le sorelle o altre donne piangenti non possano uscire di casa per seguire detto cadavere nè precederlo. Questa infrazione è punita con dieci soldi genovesi di multa e le guardie private devono vigilare perchè tale disposizione sia osservata.
La seconda disposizione non permette di catturare pernici od altri volatili con reti o lacci; la multa comminata in questo caso è di venti soldi genovesi più la confisca di lacci e reti.

Infine, gli Statuti di Ovada stabiliscono che, se qualche sacerdote o chierico facesse violenza, ingiuria o danno a qualcuno di Ovada, il Podestà o il Vicario o la stessa Comunità dovranno, a spese del Comune, denunciare il tonsurato nel più breve tempo possibile all'autorità ecclesiastica diocesana, in questo caso al Vescovo di Acqui.

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