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Vita comunitaria in Ovada durante il Medioevo..


Articolo n. 46 - Pubblicato su "Il Piccolo" del 21 Aprile 1979

 Vita Comunitaria Gli Statuti di Ovada, convenzionati con Genova nel 1327, ci offrono un vasto campo di osservazione per la conoscenza della vita comunitaria e sociale che si svolgeva nel Medioevo nel nostro borgo.
In quell'epoca lo stanziamento della popolazione ovadese ci risulta, per la maggior parte, di carattere strettamente urbano. Quasi irrilevante era invece l'insediamento della popolazione sparsa, sebbene intorno alle numerose pievi o cappelle campestri sparpagliate un poco per tutto il territorio agricolo e boschivo si raggruppassero case e cascinali che in seguito dettero vita alle moderne frazioni.
La vita lavorativa, di carattere prettamente artigiano e, se vogliamo, anche di commercio primordiale,si sviluppava solamente all'interno del borgo murato, ed è dentro il cerchio dei bastioni che troviamo riuniti i calzolai, i sarti, i sellai, i conciatori, i bottai, i falegnami, i fabbri, i fornai, i macellai e tutte quelle altre attività che necessitano all'autonoma sopravvivenza della popolazione borghigiana.
L'agricoltura o, almeno, l'attività contadina si esplica nelle rare coltivazioni ad orto che si estendono, ben limitate, appena al di fuori del borgo intorno alle mura e nei terreni irrigui sulle fertili sponde dei due torrenti Orba e Stura. Il rimanente del territorio rimane in prevalenza gerbido e boschivo con rara pastorizia ed una discreta produzione di castagne, che servono all'alimentazione della locale popolazione.
Analizzando le disposizioni e facendo un elenco dei prodotti che si coltivano nel comprensorio ovadese ci troviamo di fronte ad una ben misera elencazione; a parte la buona produzione di castagne che è preminente, gli altri prodotti che noi troviamo elencati sono: granaglie, biade, rape, legumi vari, frutta (come pesche e fichi) e, in minima parte, l'uva. Come già detto, essendo la maggior parte del terreno incolta, era però necessaria per il pascolo dei pochi bovini ed ovini che erano di notevole impulso all'alimentazione del popolo che, con il latte, i formaggi e le carni, aveva un supplemento di nutrimento. Vi erano poi dei prati per la fienagione ed anche questa era una coltura che, indirettamente, per la nutrizione del bestiame, giovava all'alimentazione umana.
Se noi pensiamo che ben trentasette articoli degli Statuti sono dedicati alla protezione di queste poche risorse agricole, riteniamo queste disposizioni più che giustificate per la salvaguardia della sopravvivenza dei residenti.
Nel gruppo di articoli codificati che hanno invece carattere annonario, troviamo che il legislatore medievale anzichè stabilire delle regolamentazioni almeno vagamente commerciali di libero scambio, si preoccupa anche qui di mantenere un regime vincolatorio, che è poi quello del tempo, dettato da fattori prevalentemente contingenti.
Troviamo così l'acquisto diretto sui mercati autorizzati, la requisizione, l'imposizione di produzione e prezzo, il razionamento, il divieto di esportazione ed ancora molti altri provvedimenti atti a facilitare la comunitaria suddivisione fra tutti i cittadini dei beni autarchicamente prodotti e lavorati direttamente nel borgo. Di commercio vero e proprio non ne possiamo assolutamente parlare perchè, in quel tempo, ci si preoccupava praticamente di suddividere equamente le scarse risorse locali nell'ambito globale del comprensorio.
I prodotti importati erano pochissimi, salvo il sale, l'olio e qualche scarsissimo agrume per i quali una ferrea regolamentazione statale ne stabiliva la precisa entità a seconda delle necessità e dei bisogni congiunturali. Pertanto, i prodotti che venivano immessi da fuori sul mercato di Ovada erano quasi nulli. Altrettanto può dirsi per l'esportazione, perchè quello che qui si produceva era a malapena sufficiente per il borgo stesso.
Le risorse costituite dall'agricoltura e dalle attività artigianali erano sottoposte ad un controllo che non ammetteva deroghe. I fornai ed i mugnai erano appaltatori dei fondi e dei mulini, che erano di proprietà della Comunità, ed alla quale pagavano dei diritti sulle cotture e moliture. Così pure l'attività dei venditori di carni, o beccarii, era regolata da rigorosissime norme comunitarie che venivano fatte rispettare dai Determinatori, dai Massari e dai Mestrali del Comune. Strettissima sorveglianza veniva anche esercitata sulle misure e sui pesi che dovevano sempre essere controllati, conformi ed uniformati a quelli stabiliti dalle disposizioni legislative. Le misure di capacità ed i pesi ufficiali erano gelosamente custoditi all'interno della chiesa parrocchiale di San Sebastiano, di dove venivano tolti solamente per compararli con quelli dei mercanti. Quelle lineari, invece, erano scolpite direttamente sulla pietra dura dei muri della chiesa stessa, sì che ancora oggi noi possiamo vedere e misurare il braccio, la canna, la mezza canna ecc.. Sulla 'Platea Communis', dove c'era anche la 'Loggia Praetoria', ed anche nella strada 'Voltinee', avveniva il mercato all'aperto, dove i banchi dei venditori erano accuratamente controllati sia nel numero che nella loro postazione topografica, che comportava una diversa valutazione del prezzo di plateatico, che diminuiva mano a mano che il banco veniva sistemato lontano dal centro della piazza.Un secondo mercato, riservato al bestiame, era situato molto lontano dal borgo, in località 'S. Antonium ad mercatum', dove già esisteva una chiesa ed un rifugio per i pellegrini. La posizione di questo mercato stagionale, fuori delle mura ed isolato dal borgo, era dettata dalle norme sanitarie del tempo che cercavano di impedire che bestie malate, provenienti da altre zone, infettassero quelle del posto e conducessero a pericolose epidemie difficilmente combattibili con i primitivi mezzi dell'epoca.
Siccome poi tutto era di produzione locale, anche i tessuti o, almeno, quelli di più vasto consumo, erano confezionati in loco e la tessitura avveniva in case private dove esisteva un discreto numero di telai per tessere garza, tela e lino.I tessitori erano tenuti a lavorare soltanto per gli ovadesi e dovevano custodire il filo od i filati che erano loro stati dati per farne tela e rendere nella giusta percentuale tanto tessuto quanto filo o filato era stato loro consegnato. I pettini usati dovevano essere della misura stabilita e la paga di questi artigiani era di sette soldi genovesi per ogni pezzo di undici o dodici braccia di tela di lino sottile, di soldi sei per ogni pezza di tela grossa e di due soldi di Genova per ogni braccio di garza.
Questi tessitori, oltre quanto tessevano per i privati, tessevano altresì per i negozianti al minuto che vendevano tele, fustagni e panni a braccia od a canne controllate dai Mestrali.
Da queste note si deduce che i panni grossi ed i velluti dovevano venire certamente dalla vicina Genova, perchè è impensabile che in quell'epoca, in Ovada, vi fosse una tale produzione. Tutti coloro che vendevano al minuto carni, pesci, cacciagioni, salse, formaggio, olio, candele, sale, vino od altro, dovevano ogni anno giurare di vendere bene e legalmente a giusto prezzo o libbra e, naturalmente, anche su di loro gravava il controllo costante dei Mestrali. I prodotti della pesca e della caccia dovevano essere venduti solo nella piazza comunale e nessuno poteva mandare o vendere fuori del borgo pesci o volatili, sotto pena di una multa generica di cinque soldi e due denari per ogni capo.
Il vino che si vendeva in Ovada presso le non numerose taverne, doveva essere di produzione locale; era infatti vietato portare o fare portare vino in Ovada che non fosse del territorio o giurisdizione. I contravventori a questo divieto pagavano dieci soldi di multa al Comune di Ovada per ogni 'barilotto'. Soltanto quei cittadini che, eventualmente, possedessero vigne fuori dei confini potevano portare il loro vino in Ovada per consumarlo in casa propria; dovevano però munirsi di un'apposita licenza che veniva rilasciata dal Consiglio del Comune, dopo accurata indagine ed accertamento che tale vino fosse effettivamente prodotto nelle vigne di proprietà.
I forestieri potevano transitare per le strade di Ovada con carichi di vino purchè non fosse per nessun motivo venduto, lasciato o scaricato in Ovada.
I mercanti stranieri che transitavano per il territorio ovadese con grano, legumi, castagne, sale o qualunque altra biada o mercanzia, potevano passare per il borgo, fermarsi e ripartire con le loro cose, persone ed animali, purchè si mantenessero tranquilli e calmi, non vendessero mercanzia e non piantassero liti con gli ovadesi; dovevano però trattenersi il minor tempo possibile nel borgo. Una regola fondamentale per evitare sperequazioni dei consumi era quella che stabiliva che se qualche ovadese autorizzato avesse comprato grano od altre biade, segale, legumi, castagne, lino, sale o qualunque altra vettovaglia, doveva permettere ad altre persone di Ovada, che avessero voluto comprare le stesse cose, di prenderne una parte per il loro fabbisogno o per le loro necessità di vendita. Era una disposizione più che giustificata in quei tempi per evitare l'incetta delle merci.
I macellai, poi, dovevano essere iscritti nei libri del Comune come tali, erano tenuti a conoscere molto bene il loro mestiere ed erano obbligati a giurare di macellare e vendere carni fresche, buone, pulite e sufficienti tre volte la settimana o a seconda degli ordini dei Mestrali. Coloro che avessero osato macellare senza essere iscritti nel Libro o senza esserne appositamente autorizzati, subivano un castigo ed una multa di ben tre lire genovesi. Si faceva eccezione soltanto nel caso che qualche possessore di bestie fosse danneggiato per la morte di una di esse per malattia non infettiva, ovvero azzannata da lupi e, solo in questi casi, gli si dava la possibilità di vendere dette carni fuori dal borgo, purchè pagasse al Comune una tangente di due soldi per ogni bue, un soldo e sei denari per ogni giovenca, sei denari per ogni maiale, due denari per capra, becco, castrato, agnello, pecora od altri capi piccoli.
Il prezzo delle carni fresche era fissato mese per mese dai Mestrali e non poteva essere variato 'per nessun motivo'. I beccari che non vendessero carni in ottimo stato, che facessero passare stalli di una certa bestia per altri di bestia diversa, che non tagliassero le carni come dovevano essere tagliate o che le sofisticassero erano puniti con gravissime sanzioni che arrivavano fino ad un massimo di cinque lire genovesi e, inoltre, se si fosse manifestata qualche malattia fra le bestie esistenti in Ovada, i macellai, prima di macellare gli animali per la vendita dovevano farli controllare dai Mestrali, i quali potevano concedere o meno il permesso di macellazione. Come vediamo, trattasi di una organizzazione molto arcaica ed incompleta, ma abbastanza valida per i tempi che correvano e che, più che altro, serviva a non sperequare le modeste risorse di una comunità che era già abbastanza tartassata dalle ricorrenti carestie, dalle guerre, dalle malattie endemiche ed epidemiche e che cercava i mezzi necessari alla sua sopravvivenza usando ed adottando una regolamentazione autodisciplinare idonea e bastevole alle esigenze di quel tempo.

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