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Ricordi di prigionia - Fuga verso Oriente.


Articolo n. 14 - Pubblicato su "Il Monferrino" del Maggio 1969.

Il Sottocapo di Marina Rossi (1) si dava da fare grattando con un rampino l'interno di una granata da poco fusa per pulirla delle scorie di fusione.
Il lavoro era duro e faticoso: per dodici ore consecutive, a turno, ora di giorno ora di notte, gli italiani prigionieri che avevano avuto la sfortuna di capitare in quella piccola officina nella città di Gruemberg, si scorticavano le mani e finivano di consumare le già esauste energie in un lavoro di finitura ad ordigni che ormai non avrebbero più potuto servire alle armate tedesche. Si era nel novembre 1944 e lo sforzo bellico germanico non riusciva più a contenere la pressione dell' Armata Rossa che già premeva al di là dell' Oder e non attendeva che di fare l'ultimo balzo per l'estrema offensiva, quella decisiva che avrebbe portato i Russi a Berlino.
Malgrado ciò i Tedeschi infierivano, e infierivano più ancora ora che sentivano che per loro tutto era perduto. Il Sottocapo Rossi, un napoletano di Napoli, lungo, ossuto, spilungone e, più che magro, quasi scheletrico dai digiuni; sudante, ansante ed orante, invocava San Gennaro che gli desse le forze di poter terminare la pulizia di quelle poche granate che ancora gli restavano, cosa che gli avrebbe permesso di tornarsene in baracca dove, assieme a quel poco di brodaglia ormai fredda che l'aspettava, avrebbe potuto almeno stendersi esausto sul paglione. Il sorvegliante armato che da tempo lo guatava e lo incitava a fare più presto e meglio, e che aveva ormai superato il suo orario di servizio per attendere di riaccompagnare nel Lager il suo prigioniero, fremeva e minacciava. Rossi non ne poteva più, faceva macchinalmente i gesti del suo lavoro con la mente ormai ottenebrata dalla stanchezza e dall' esaurimento. Le dodici e più ore che aveva trascorso al banco di lavoro erano state un tormento che non si sarebbe placato che con il termine dei pezzi da finire. I lazzi, gli insulti, le spinte, i colpi di calcio di fucile che l'aguzzino gli aveva propinato e che ora, più rabbioso che mai, continuava a propinargli, lo avevano esacerbato e reso furioso. Il dolore, i patimenti e le umiliazioni che da circa due anni subiva in prigionia ormai lo ossessionavano. Non lo sorreggeva più manco quella piccola filosofia spicciola che in tanti casi lo aveva aiutato a superare momenti anche peggiori.
Ribellarsi?! Ma come? Al suo primo gesto di rivolta la furia del tedesco si sarebbe abbattuta su di lui, immediata, e tutto sarebbe finito, anche la speranza.
Fuggire?! In che modo? Approfittare del buio durante il trasferimento dalla fabbrica alla baracca, nel punto dove i binari della stazione di smistamento merci attraversavano lo stradone che conduceva al Lager? Forse sarebbe stato possibile far perdere subito le proprie tracce tra tutti quei vagoni in sosta, sempre, beninteso, che il guardiano non gli avesse sparato dietro. Ma poi, dove andare? Che fare in piena Germania, tra una popolazione ostile e nemica, braccato da tutti, senza viveri, vestito così com'era e senza poter chiedere niente a nessuno? Eppure l'idea lo tormentava e, sebbene assurda, gli si andava infiltrando nel cervello... qualcuno vi era già riuscito! Finalmente l'ultima granata è pronta. Escono e son soli, Rossi davanti con il suo problema in testa e, due metri dietro, il tedesco, intabarrato, infreddolito, con il fucile imbrigliato sotto il mantello e preoccupato più di far presto per tornarsene al caldo che di guardare bene il suo prigioniero. Nessun'altro per la strada. Ecco lo scalo merci, una colonna di lenti vagoni in manovra e, al di là, su di un altro binario, un merci in transito, lento...invitante.... I due sostano, lo sbirro si distrae un momento per accendere una sigaretta e Rossi, con un guizzo, si aggrappa ad uno dei carri in movimento, sale, attraversa, si butta giù dall'altra parte e con la forza della disperazione riesce ad afferrarsi all'ultimo vagone del merci in transito.... E' tutto.
Incontrai Rossi alla stazione ferroviaria di Gruemberg. Era una mattinata grigia che prometteva neve. Pesto, contuso, pieno di lividi ed ammaccature per le botte ricevute, veniva tradotto, come molti altri (2), ad una compagnia di disciplina della Todt. Nell'attesa di partire, andava raccontandomi la sua assurda storia della fallita fuga: dopo tre o quattro stazioni una pattuglia della sorveglianza lo aveva scovato, raggomitolato nella garitta del carro di coda, sfinito dalla fame e mezzo assiderato. Fu riportato indietro, caricato di botte all'arrivo, chiuso in cella di rigore e trasferito per punizione alla Compagnia di Disciplina. Gli era andata ancora abbastanza bene, perchè se ciò fosse avvenuto qualche mese prima, sarebbe finito dritto dritto a Mauthausen o Buchenwald.
Mi si rese subito simpatico per la scanzonata indifferenza con la quale mi raccontò la sua storia. Sembrava che quell' esperienza, e ne portava i segni su tutto il corpo, gli avesse ridato una fiducia nuova nell'avvenire ed i colpi che aveva ricevuto avessero provocato un salasso benefico che gli faceva ora vedere le cose sotto un altro punto di vista. Non era rassegnazione, ma quasi un'acquiescenza scanzonata al suo destino, che non si presentava poi tanto migliore del precedente. Le Compagnie di disciplina amministrate dalla Todt erano accozzaglie di disperati, prelevati un pò in tutti i Lager, militari prigionieri in punizione, donne e uomini ebrei deportati, lavoratori trasportati in Germania da tutte le Nazioni d' Europa. Vi si parlavano tutte le lingue europee e vi erano rappresentate tutte le razze, dai biondi nordici del Baltico e del Mare del Nord ai bruni meridionali di Sicilia e delle isole.
I compiti assegnati a tali compagnie erano quelli di costruire trinceramenti, opere di difesa anticarro, bocche di lupo, sbarramenti, ecc. in territorio direttamente minacciato dall'avanzata russa ed in zone al di là dell' Oder, nella piatta ed inospitale pianura polacca, dove il termometro a volte scendeva fino a 25-28 sotto zero. La disciplina e la sorveglianza erano affidate ad alcuni 'Lager-Fuehrer' aguzzini, coadiuvati di solito da rinnegati o disertori di razza polacca, ucraina o russa che, quando la situazione precipitava disperata per improvvise infiltrazioni di pattuglie o carri armati russi, fuggivano trascinandosi dietro a nerbate quelli che potevano e lasciando alla loro sorte, talvolta crudele, gli altri.
Il viaggio di trasferimento fu lungo e disagiato. Al di là del fiume, in un piccolo villaggio abbandonato, in mezzo ai boschi di conifere, dov'era il baraccamento, la guerra la si subiva inermi. Si era praticamente in terra di nessuno; pochissime sparute forze tedesche presidiavano la zona ormai abbandonata al suo destino. Più che di difesa, il loro compito era quello di avvistamento e segnalazione. Il grosso ed i mezzi corazzati si tenevano nelle città e nei paesi della riva sinistra, al di là dei ponti minati, con la speranza che il fiume facesse da baluardo naturale all' invasione. Ad ogni allarme, qualche piccolo panzer varcava i ponti, si avventurava allo sbaraglio nella zona critica e, immancabilmente, cadeva in mezzo all'accerchiamento dei grossi carri armati russi che, dopo aver dilaniato la preda, sparivano indenni all'orizzonte. Le carcasse fumanti ed annerite, diventate bare per gli equipaggi, si stagliavano nel grigiore invernale come neri fantasmi di draghi abbattuti, quasi a testimoniare la fine di un mito.
La nostra posizione era indefinibile. Non passava giorno senza che il nostro lavoro forzato fosse interrotto da mitragliamenti aerei, puntate di pattuglie e carri russi. Ci si trovava sempre in mezzo a sparatorie tra russi e tedeschi ed i nostri guardiani diventavano via via più perfidi. La vicinanza dei Russi li ossessionava, ci sorvegliavano più attentamente che mai ed un nonnulla bastava a scatenarli. D'altra parte, oltre il timore per la loro pelle, temevano una nostra fuga che la poca distanza dalle posizioni russe avrebbe favorito. Rossi ed io, gli unici italiani di quel gruppo, si stava il più possibile uniti. Mi faceva le sue confidenze, mi parlava della sua Napoli, deli suoi cari, della sua 'guagliona' che l'aspettava, ma più che altro faceva progetti di fuga; quello dell'evasione era un pallino che non l'aveva abbandonato.
La situazione ora non era più quella di Gruemberg; qui se si riusciva a superare quella fascia di terra scoperta che ci separava dai russi e se si riusciva ad evitare il tiro a segno che avrebbero fatto su di noi i Tedeschi, si poteva dire di avere quasi raggiunto lo scopo. Bisognava, però, necessariamente, correre verso le linee sovietiche, indietro non si sarebbe più potuto tornare... e come ci avrebbero accolti loro? Ci avrebbero forse scambiato per tedeschi e presi a fucilate? In ogni caso non c'era altra alternativa. Di questo si discuteva con Rossi un giorno del febbraio 1945, appiattiti in una profonda buca del terreno mentre sopra di noi si susseguivano i colpi tra l'una e l'altra parte, durante una delle solite scaramucce. Mi aveva ormai quasi convinto e, d'altronde, che altro si poteva fare? Eravamo allo sbaraglio, con pochissime possibilità di uscirne vivi, e tanto valeva tentare. E bisognava farcela di giorno, perchè la notte le porte e le finestre del baraccamento venivano sprangate dal di fuori ed era impossibile la fuga. Bisognava tentare quando si era fuori, dunque, durante un allarme, quando pattuglie e carri facevano sortite di disturbo e nelle linee tedesche si creava panico e confusione e la sorveglianza su di noi veniva allentata perchè i nostri guardiani cercavano anch'essi un riparo in qualche buca. Ma, più che altro, bisognava fare in modo di trovarsi, in quel momento, staccati ed isolati dal gruppo, in modo da non essere, anche se al riparo, sotto la diretta sorveglianza dei guardiani.
Si stava appunto scavando, in quei giorni, una profonda trincea anticarro. Il suo tracciato si snodava come un grosso serpente nella pianura ondulata e noi eravamo appunto scaglionati a piccoli gruppetti lungo questo fossato. I due o tre guardiani lo percorrevano in tutta la lunghezza incitandoci, sbraitando ed a volte bastonandoci perchè spicconassimo alla svelta ed in profondità. Noi si spicconava quando erano in vista e si smetteva quando si allontanavano. Il tracciato stesso dell'opera, tutto ad anse e rientramenti, ci permetteva di usare quella tattica di boicottaggio che, penso, sia stata sempre usata, da che mondo è mondo, da tutti coloro subenti un'oppressione. Rossi ed io ci si trovava all'estrema destra dello scavo, coperti alla vista degli altri dall'ultimo gomito del tracciato. Era una giornata freddissima, con terreno duro e gelato. L'unico conforto era quel poco di calore naturale che ci dava il movimento; se non altro, quando si usava il piccone ci si scaldava.
Ad un tratto ecco una formazione di tre 'Rata' sovietici che scende in picchiata mitragliando.
Si crea la solita confusione. Tutti cercano riparo come meglio possono. Il nostro fossato ci ripara abbastanza bene dalle offese aeree, perchè è ben difficile che dall'alto e frontalmente possano colpirci, a meno che non lo prendano d'infilata.
Ma non siamo noi l'obiettivo degli aerei. Essi puntano certamente contro qualche postazione di artiglieria più arretrata o su panzer in movimento.
E non sono solo aerei. Stavolta la cosa è più grave. Infatti, all'orizzonte si stagliano minacciose le sagome di un gruppo di grossi carri che avanzano lentamente, con il loro caratteristico stridore di ferraglia.
L'ordine per noi è di ripiegare alla svelta, ma nel caos che si è venuto creando e nella precipitazione degli eventi le nostre guardie non possono coordinare un arretramento ordinato, e tutto si svolge alla "Si salvi chi può!".
Può essere per noi l'occasione sperata. nel trambusto del momento, forse, avranno altro che pensare di badare a noi due. Sostiamo appiattiti sul fondo del fossato, in attesa. Alla nostra destra, oltre il limite dello scavo, c'è un boschetto di alberi scheletriti.
D'un balzo siamo fuori trincea e con una frenetica corsa raggiungiamo ansanti il non lontano gruppo d'alberi che ci sarà di nuovo riparo. Sentiamo alle nostre spalle, verso sinistra. il vociare dei guardiani che incitano gli altri a raccogliersi per ripiegare più in fretta.
Si allontanano. Torna sul posto una relativa calma, rotta soltanto dal rumore dei carri che avanzano e dal gracchiare a singulto di qualche mitragliatrice.
Ormai il dado è tratto, non è più possibile tornare con gli altri; non ci resta che tentare la via dei Russi. Ma ora il pericolo è maggiore. Se ci mettiamo allo scoperto rischiamo di cadere sotto i colpi delle postazioni tedesche sparse sulla pianura, e di fronte abbiamo i Russi che avanzano e verso i quali vorremmo andare.
Ci consultiamo sul da farsi. Il tempo stringe, i carri avanzano e, dietro i carri, pattuglie di fanteria. Sulla nostra destra, al di là del boschetto, una mitragliatrice tedesca comincia a sgranare il suo rosario.
Tentiamo! Il rischio è grande, ma bisogna correrlo. Cerchiamo freneticamente una pezzuola bianca, la issiamo su di un ramo secco e con essa, correndo a balzelloni, usciamo allo scoperto verso il più prossimo dei carri russi.
I Tedeschi ci hanno visti: intorno a noi cominciano a fischiare i proiettili. Ci buttiamo dentro la prima buca che troviamo e, dopo un attimo di sosta per riprendere fiato, ci rimettiamo a correre chinandoci il più possibile e zigzagando per offrire un più difficile bersaglio a chi ci spara.
Sono attimi pazzeschi. Ad un tratto Rossi cade di botto. Lo hanno colpito. Mi butto a terra, lo afferro come posso e strisciando me lo trascino, con immensa fatica, dentro la buca più vicina. Perde molto sangue da una brutta ferita alla gamba destra. Con la sciarpa che mi levo dal collo cerco di fermare l'emorragia stringendogli la gamba sopra la ferita. Non posso fare altro. Intanto ci sferraglia accanto il carro russo, alto sui bordi della buca, ma non si ferma. Mi volto un attimo e lo vedo indirizzare il fuoco delle sue armi dritto sulla postazione tedesca che ha colpito Rossi.
Ora arrivano i fanti; si fermano alti su di noi, con i Parabellum puntati, ma non sparano, gridano chissà cosa. Alzo tremante le mani e due scendono. Guardano Rossi. 'Kaputt?', mi domandano. Faccio segno di no, sempre con le mani alzate. Uno mi fa segno di abbassarle, parlotta con l'altro e se ne va.
Quello che resta si accuccia ed attende. E' un giovane Mongolo dagli occhi obliqui, vivi ed intelligenti. Infagottato nel lungo pastrano grigio mi sorride e si accinge ad arrotolarsi una sigaretta. Quando l'ha accesa si sfila dalla cintura una borraccia e me la porge indicandomi Rossi, che non ha ancora ripreso i sensi. Apro la borraccia e l'annuso; sento forte l'odore dell'alcool e accostandola alla bocca del ferito faccio scolare un pò di liquido nella sua gola. Rossi apre gli occhi, si guarda in giro e, stralunato, mormora "Mo' siamo arrivati in Cina!".
Gli faccio animo, cerco di appoggiarlo nel migliore modo possibile contro le pareti della buca, bevo anch'io una sorsata di alcool che mi brucia forte lo stomaco, ma mi dà un pò di calore, e restiamo in attesa.
Intanto, l'azione deve essere terminata; non si sentono più spari dietro di noi.... I carri ritornano. Uno si ferma e ne scende un Ufficiale con il fante che ci ha lasciati prima. Mi parla in Russo; quando gli faccio capire che sono italiano esclama "Badoglio capitulante!", poi mi si rivolge in francese; finalmente ci comprendiamo e gli spiego com'è andata.
Non gli è possibile trasportare il ferito sul mezzo cingolato, almeno per il momento. Lui deve tornare, perchè la missione è compiuta e non ha spazio nè tempo per portarlo con sè. Inoltre, questa è zona non ancora occupata e non può fermarsi, deve rientrare alla base per riferire e prendere ordini. Mi promette che farà il possibile per tornare a prenderci. Ad una mia insistente domanda se ci sono ancora tedeschi dietro di noi, mi dice che le postazioni di quel settore hanno ripiegato in disordine e che loro li hanno inseguiti fino al fiume. Non sa altro.
Mi lascia due coperte, una borraccia d'acqua, un pò di pane e lardo, una fiaschetta di vodka, un poco di tabacco da arrotolare e se ne va.
Intanto scende la notte. Rossi si lamenta per il dolore ed io non so come fare per lenirlo. L'emorragia si è fermata ma il ferito è febbricitante. Cerco di adagiarlo alla meno peggio e lo copro con le due coperte; ogni tanto gli do un sorso di vodka e un pò d'acqua. Delira, smania, si dimena e parla. Piange, ride, dice parole sconnesse e, in qualche momento di lucidità, mi chiede che cosa sarà di noi. Cerco di rassicurarlo, gli dico ciò che ha promesso il russo, ma anch'io ci credo poco.
La notte è illuminata da bagliori d'incendi all'orizzonte. Sono paesi e villaggi che bruciano. Lontano, si sente continuo il tuonare delle artiglierie; ne deduco che sta succedendo qualcosa di grosso e forse i Russi hanno sfondato in qualche punto ed hanno passato il fiume.
Il freddo è intensissimo, e l'alba tarda a venire. Cosa potrò fare con questo ferito se non verranno a prenderci? Penso a tutte queste cose mentre balzello, salto, muovo le braccia e gambe per non restare intorpidito dal freddo. Ho l'impressione che non ci siano più tedeschi dietro di noi; tutto intorno è silenzio. Forse il russo ha detto la verità.
Con il solo cappotto, devo muovermi in continuazione. Sono obbligato ad uscire dalla buca per fare un pò di movimento. Lo faccio con timore, ma nulla si muove; è veramente terra di nessuno. Unico, solo, come un fantasma impazzito, corro intorno ai margini della buca per riscaldarmi. Rossi, di sotto, geme. La scena deve essere tragica e comica insieme.
Finalmente, un grigiore lattiginoso ad oriente annuncia l'alba prossima. In quest'ora tutto è silenzio. Le artiglierie tacciono ed una nebbia bassa che sale dal fiume avanza pian piano sulla pianura. Ed ecco, lontano, davanti a noi, il battere di un motore. E' un camion isolato che viene solitario nella nostra direzione. Mi alzo, gesticolo, agito un fazzoletto..... Sono loro!
Il camion si ferma e ne scende l'Ufficiale di ieri, al volante una donna in uniforme. "Allons...Vite! Vite!", mi dice. Mi aiuta a trasportare il ferito dentro il cassone coperto del camion e poi salgo anch'io. Si riparte.
Marciamo vari chilometri a scossoni nella pianura e, finalmente, imbocchiamo una carrozzabile piena di traffico e di movimento. Sono truppe appiedate, carriaggi, salmerie, colonne di autocarri e di carri armati, pezzi di artiglieria che convergono tutti verso la testa di ponte di Steinau, dove i Russi hanno sfondato e varcato il fiume. Gruppi di prigionieri tedeschi ci incrociano, appiedati, laceri e coi volti disfatti. Ci arrestiamo presso un comando avanzato, dove c'è un gran traffico di uomini e di mezzi. A Rossi vengono praticate le prime medicazioni da un medico militare russo che già è indaffarato per conto suo con altri feriti russi.
Io vengo condotto dal Comandante, al quale racconto la nostra storia in francese che, via via, viene tradotta in russo dal nostro soccorritore. Infine mi conducono in una cucina da campo, dove posso abbondantemente rifocillarmi.
Rossi viene caricato su di un camion che trasporta feriti in qualche ospedale arretrato. L' Ufficiale, nostro samaritano, viene anche lui a salutarlo e, tramite la mia traduzione, a rassicurarlo che tutto gli andrà bene.
L' avventura è così finita.
Io resto. Resterò ancora per qualche giorno in quel comando fino a che tutto nella zona non si sarà calmato; intanto avrò modo di poter conoscere a fondo l'animo del nostro soccorritore che, in seguito, incontrerò di nuovo al Centro di Oelsnica, e nascerà tra di noi una nuova e sincera amicizia.
In Oelsnica ritroverò anche Rossi che, guarito, rientrerà in Italia con me, dopo oltre otto mesi di permanenza con i russi.

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NOTE del curatore:

1) Il cognome di questo personaggio, trattandosi di una storia realmente vissuta, non è, naturalmente, quello originale.
2) Dato che anche l'Autore veniva trasferito presso questa Compagnia di Disciplina, si è legittimamente autorizzati a supporre che anch'egli non abbia mantenuto, durante la sua prigionia, un comportamento 'tranquillo' ed ossequioso nei confronti delle teutoniche autorità militari.

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